Mi regali una sedia della tua vita?

Piccola selezione del tutto arbitraria: alcune delle persone che si sono accomodate in questo blog, raccontando qualcosa di molto personale.

L’elenco completo delle interviste a questa pagina
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FRANCESCA BALLARINI

“C’è una poltrona in casa mia.
E’ bella, fresca, accogliente e vecchia.
E’ qui da prima di me, le porto rispetto.
E poiché c’è sempre stata, e io no, non l’ho guardata mai a fondo.
E ora che la disegno posso dire che la conosco.
Ha tante rughe che partono dai suoi bottoni, che forse sono i suoi occhi. E quelle mille pieghe che si diramano disegnano strane reti, è come se fossero tutte la linea della vita della Mia Poltrona.
E penso a tutte le volte che mi ha accolto, un corpo che cresceva”.

intervista

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ISABELLA CARTA

Ti regalo uno sgabello. Era lo Scagnel, lo chiamo col dialetto giusto per distinguerlo, mia mamma era Trentina e quando andavo dalla mia nonna si parlava dialetto. Lo sgabello che aveva mia nonna in cucina era robusto, verniciato di bianco con una fessura semianatomica in mezzo alla seduta per infilarci la mano.
Io me lo ricordo grande come una sedia senza schienale ed era uno dei giochi che avevo a disposizione, lo ribaltavo e diventava un set per una qualche avventura con i miei pupazzetti, inclusi quelli del presepio, oppure messo di fianco diventava un mezzo di trasporto, per lo più astronavi verso l’infinito ed oltre…

intervista

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MANUEL BONGIORNI

In uno sketch con il mio amico Diego Parenti in cui lui interpreta un cavaliere di ventura e io un boscaiolo racconto di aver costruito uno sgabello trasparente.
Lui poi prova a sedercisi e batte il culo a terra tra le risate. Visto a cosa servono gli amici? e le seggiole? e il sedere?

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STEFANO MISESTI

Una piccola sedia pieghevole da campeggio. Quelle facilmente trasportabili in uno zaino. Da ragazzo, nei miei viaggi per l’Europa con l’interail, tra ostelli e campeggi. Davanti al piccolo fornelletto a gas vicino alla tenda, seduto bevendo un caffè e osservando il mare.

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VALERIO M. VISINTIN

Due sediole di plastica bianca sulle quali batte il sole di luglio soltanto per me e per Caterina. Ci siediamo appoggiando i talloni su un muretto di pietra. Leggiamo in silenzio sbirciando il mare della Corsica che va e che torna per sentirsi ripetere ancora quanto gli vogliamo bene.

interivsta

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FABIO KORYU CALABRO’

Uno zafu

intervista

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ANTONELLO DOSE

Senza dubbio il Poggiaginocchia Stokke-Varier, acquisto precedente rispetto alla Gravity, ce l’ho da più di 20 anni, la uso per la mia pratica Buddista, e ci ho vissuto le emozioni più belle di questa vita… Oltretutto è una sedia democratica, moltissime persone l’ hanno utilizzata per migliorare la propria, di vita, davanti all’oggetto di culto buddista, il Gohonzon, che conservo in casa.

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KIRAKU KUBOTA

Penso che trascorreremmo giorni prosperi e felici se trovassimo la sedia significativa della nostra vita. La sedia è qualcosa di speciale…

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MELISSA CAPPELLI

Credo nella sedia che devo ancora costruire, mi piace molto la fase di progettazione, è il momento di maggiore creazione di idee. Comunque, se dovessi scegliere una sedia fra quelle già fatte, penso che ora possa essere FRANKEstina, la prima che ho creato, perché rappresenta l’inizio, il momento in cui si lavorava liberamente spinti solo dalla necessità, mentre poi subentra spesso l’esercizio del fare. E’ una sedia-poltrona che vuole raccontare…

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REBECCA MANSON

Nella casa in cui sono cresciuta c’era un enorme trono che mio padre aveva ereditato da suo padre. Sono cresciuta ascoltando racconti sulle sedie che servivano come elementi di scena nelle performance teatrali di mio padre negli anni 70 in Canada. Quando avevo circa sette anni i miei organizzarono una cena. Per qualche ragione decisi di nascondermi sotto una sedia e tagliai via un ciuffo di nappe che pendevano dalla seduta. Quando videro e si arrabbiarono io dissi che la colpa era dei figli dei loro amici che stavano alla festa. Confessai tutto questo circa 12 anni più tardi. La mia scultura “Throne” è ispirata a quella sedia e adesso sta nella casa dei miei, accanto all’originale. Dice: Mi spiace.

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FRANCO BOMPREZZI

Ricordo sempre quando con la mia sedia a rotelle sono sbarcato alle Svalbard, scendendo da una nave da crociera. Un’emozione fortissima, pensare che nella mia vita potevo fare anche questo, lasciare nella polvere fredda di un’isola nei mari del Nord il segno dei miei copertoni. Indimenticabile.

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CECILIA VIGANO’ (CEVI’)

Di ferro bianco con tutti i riccioli e i braccioli (le avrò anch’io quando avrò una casa!), bellissima ma scomoda, ci salivano sempre le formiche, le vedevi subito spiccavano sul bianco, stava (insieme ad altre intorno ad una tavolino) nel giardino della casa della sorella di mia nonna. Ci sedevamo lì d’estate con le mie cugine, all’ombra a far pausa per mangiare il panino col salame dello zio o la torta di mars (la faceva sciogliendo i mars a bagnomaria e aggiungendo riso soffiato, ne andavamo pazze) dopo un pomeriggio di gioco sfrenato

intervista

1KA MATE KA ORA

Carlo: la sedia accanto al divano su cui si sedeva sempre mia nonna quando avrebbe fatto troppa fatica a tirarsi su dalla poltrona. Ci si addormentava flettendo il collo in avanti a tal punto che temevo potesse spezzarsi. Me la ricordo così, ma anche in migliaia di altri modi. A ben pensarci quasi sempre seduta. Le voglio ancora tanto bene.

Stefano: una sedia che ha fatto sempre paura è stata la sedia dell’arbitro di tennis, avevo sempre paura che toccasse a me fare l’arbitro durante i campionati giovanili a squadre con il timore di sbagliare tutte le decisioni e fare arrabbiare i giocatori.

Alberto: la piccola sedia di vimini che avevo nella mia camera. Ci sarò seduto sopra milioni di volte da bambino (ed anche quando ero un po’ più grandicello). Mi è rimasta impressa l’immagine di quando guardavo la televisione ed avevo il mio gatto a farmi compagnia proprio su quella sedia.

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MAD EMOISELLE SARABANDE

Mad Emoiselle Sarabande potrebbe prestarti il suo sgabello tondo marrone, ma solo per qualche ora, poi dovresti restituirlo perché quello è un po’ la coperta di Linus, si porta ovunque e più di una volta ci ha salvate nei concerti quando mancava una seduta per le pianiste!!! Ma la sedia che ti vogliamo regalare è una di quelle che ci ha viste sudare, tremare, gioire, scalpitare, piangere… il panchetto marrone davanti al pianoforte Kawai, sempre marrone, nello stanza-studio della nostra insegnante… lì forse c’è scappata pure qualche goccia di pipì per la paura ma anche abbracci tenerissimi tra chi come noi stava scoprendo un mondo nuovo e chi come lei, la nostra insegnante, ogni volta ce ne mostrava un pezzettino in più.

INTERVISTA

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ANTONIO GIUSEPPE MALAFARINA

Anni Ottanta, in metropolitana con i compagni di classe per una gita non ricordo dove. Mi si avvicina una ragazza bella come una stella sulla quale all’improvviso posi lo sguardo in una notte estiva. Alta, elegante in nero con la minigonna sulle slanciate gambe velate di nylon seppia. Mi chiede informazioni senza che io riesca a capire. Le chiedo di spiegarsi meglio sotto il mio Borsalino bistro e dentro il trench grigio col bavero alzato. Gli altri della classe se la ridono. Non riesce a spiegarsi. Il convoglio avanza e arriva alla stazione. Lei vuol sapere qualcosa sulle direzioni ma non riesco proprio a comprenderla. Mentre scende mi dice che è sorda. La schiena mi si fa di ghiaccio. Resto impalato mentre le porte si chiudono. La vettura si allontana. Lei spaesata, metafisica e indifesa sotto le luci della banchina. Io disperato nella mia pochezza, trascinato dal pubblico treno.

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NICOLA DIFINO

Lo sgabellino basso su cui sedeva mia nonna paterna, Maddalena, fatto in legno trovato in campagna e chiodi arrugginiti, lei ci ha passato la vita su quello sgabello. Lei era piccolina e minuta come uno schizzo a matita fatto su un foglio di carta velina immerso nell’acqua, coi capelli lunghi raccolti in uno chignon perfetto che non ha mai sciolto davanti a nessuno. A sera, quando tornava dalla campagna, si sedeva a quello sgabello dietro il suo banchetto ed insegnava a leggere e scrivere agli analfabeti del paese. Ha pure sposato un suo studente!
Faceva la scrivana (come Totò in Miseria e Nobiltà) anche, e fino a qualche anno prima della sua scomparsa avvenuta nel 1989 all’età di 99 anni e 9 mesi, prestava servizio per strada nel centro storico di Rutigliano. Praticamente, le signore che non sapevano scrivere (e ce n’erano tante), le mamme che avevano il figlio emigrato in America, o il marito in Germania, oppure il fratello al nord a cercar fortuna, andavano a farsi scrivere le lettere da mia nonna. Quello sgabellino e quel desco hanno sentito piu’ storie di quante ne possiamo raccontare noi nella nostra vita.
Subito dopo la sua scomparsa, la casa di mia nonna crollò per un problema strutturale, e tutta quella letteratura umana fu seppellita e successivamente portata in discarica (in mia assenza). Non so che darei per quello sgabello.Vi voglio regalare la sua immagine.

intervista

 

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CLOTILDE

Costanza: Tobia!

Silvia: La poltrona mangia ricordi. Era di  mia nonna, poi è stata in soffitta, poi a casa mia, poi a casa Clotilde. Ha una pancia grande e mangia tutto! figurine di creamy, biglietti di auguri, la partecipazione di matrimonio dei miei genitori, un robot di mio fratello, una big babol… a distanza di tempo tutto prende un valore magico.

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PEPPO BIANCHESSI

Mi è venuto in mente che ho realizzato dodici grandi pannelli per un negozio di design con sedie “storiche” e relative didascalie. Ma non è questo il ricordo che vorrei regalarti.
Ti racconto invece questa storia perché è legata a una sedia e alla mia prima idea di rapporto tra immagini e evocatività della scrittura. Dunque: anni fa feci un’installazione intitolata “La zia resistente”. Era una mostra collettiva sulla resistenza e mi spaventava un po’ l’idea di affrontare il tema in modo retorico. Me ne stavo da giorni di fronte ad una tela enorme immaginandomi questa o quell’altra cosa. Accanto c’era una vecchia sedia scrostata che usavo per appoggiare i colori. Un giorno mi cadde l’occhio su una pagina di giornale che avevo messo “per non sporcare” il pavimento. C’era un articolo su un bastardo che regalava bambole esplosive a delle bambine zingare e ne aveva ferita una. Ebbi un’illuminazione e cominciai a scrivere quello che stava succedendo: io stavo cercando un’immagine che celebrasse la resistenza al nazifascismo. Mi venne in mente Zia Mary, la zia di mia madre (ancora viva, lucida, combattiva e 101enne)… e i suoi racconti: il mio prozio, comandante partigiano, venne ucciso sull’Altopiano di Asiago. Mio nonno e l’altro zio andarono di notte, di nascosto, a prendere il corpo per poterlo seppellire. Zia Mary era una staffetta che portava soldati inglesi e americani al di là della frontiera, a piedi o con la sua bicicletta…Io avevo i suoi racconti e, sotto i miei piedi, un articolo che mi ricordava che in quel momento, attorno a noi, succedevano cose orribili che richiedevano consapevolezza e resistenza da parte di tutti. La mia installazione fu questa, una sedia bianca con sopra un pennello e un manifesto incollato al muro sul quale scrissi una lettera che spiegava quello che ho scritto sopra sulla Resistenza.
Molti passarono davanti senza fermarsi (“che palle… c’è troppo da leggere…”). Altri no, si fermarono e si sentirono toccati dal lavoro. La lettura richiede una scelta. Prendersi il proprio tempo per riflettere e capire. Fare una scelta attiva che difficilmente facciamo di fronte ad una immagine.

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FER MUNIZ

Per come intendo io, la sedia della mia vita è magica, non la posso vedere, neanche toccarla.
Ma so dove trovarla. E quando mi siedo, trovo conforto e tanto amore.
Posso restare quanto voglio, posso alzarmi quando mi pare. La sedia della mia vita mi ispira, è il mio rifugio.

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CHRISTIAN TAGLIAVINI

Ora che ci penso, credo di associare la sedia e il gesto di sedersi al riposo e al “non fare niente”. Poi sono conscio che io stesso, come la maggior parte delle persone, nella fase di progettazione lavoro seduto per lunghe ore. Tuttavia mi viene automatico vivere la sedia come momento di pigrizia e questa cosa mi disturba. Probabilmente non ho ricordi legati alle sedie per questo, rimuovo il non far niente. Te l’ho detto, sono un irrequieto!

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PATRICK GOMME

Questa sedia, per me è una delle più rappresentative per la mia ricerca sul corpo. Vi si legge, come prima impressione, l’immagine del vissuto, della vita con tutti i suoi simbolismi, un corpo che racconta la storia di una donna in un ambiente atemporale. Io trovo in quest’immagine bellezza, sensualità, estetismo e dolcezza. Quando ci siamo sentiti al telefono e durante il nostro incontro, ho percepito in questa donna una difficoltà del vissuto. Lei si è mostrata sensibile alla mia ricerca artistica ed al fatto che io potessi fotografarla. Ha accettato di essere messa in difficoltà. Lei non pensava che un giorno avrebbe potuto posare nuda, proprio con quel corpo al quale non è granché affezionata, e che se ne potesse creare un opera d’arte. Ha scoperto che la sua immagine poteva diventare esteticamente molto interessante, che si poteva uscire dai codici della società dell’immagine.

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UMBERTO DATTOLA

La sig.ra Maria siede su una sedia di legno impagliata, consumata ed ingrigita dalla salsedine. Guarda il mare in silenzio mentre ci aspetta, lo avrà contemplato miliardi di volte, ma sembra rapita. In lei la stessa calma del mare. La invidio per questo rapporto, la amo per quel bastarsi a vicenda tra lei e l’orizzonte.
(Syros – Grecia – Giugno 2007)

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MATTEO GUBELLINI

Quando mi innamoravo, regolarmente non contraccambiato, oppure quando venivo preso d’assalto dalle mie solite paturnie, mi sistemavo trai morbidi braccioli di un mio caro amico, e lì ritrovavo un po’ di calma, insieme alle mille parole.

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PINO PACE

Ce l’ho. E’ una sedia che avevo in casa quando ero bambino. E’ di legno, anni settanta (del secolo e millennio scorso, oddio!) foderata (e rifoderata) di finta pelle, una volta marrone adesso blu notte. Da bambino mi ci sedevo al rovescio e facevo finta di pilotare un’aereo. I miei genitori le hanno buttate via qualche anno fa e sono riuscito a recuperarne solo una che ho in casa. Ogni tanto mi viene la nostalgia di quei giochi, non riesco più a giocarci ma ricordo quanto mi piaceva.

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SILVIA ROMANI

Rodi. Terrazza di una taverna a picco sul mare. Max, Io e il nostro primo (e allora unico) figlio dormiente nel passeggino. Intorno nessuno, grigliata di pesce, sedie pieghevoli di legno, color azzurro Grecia. “Mi vuoi sposare?”

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MAURO THON GIUDICI

Lo sgabello da mungitura di mio nonno paterno. Ricordo le serate d’inverno, ancora piccolo, quando ancora le persone si ritrovavano nel calore animale nella stalla. Gli aghi di pino che fermentando sovrastavano, inebrianti, ogni altro odore col loro. La luce tenue di una lampadina a basso voltaggio. I racconti di caccia, delle guerre e di vita. Le mucche che ruminavano. Una ruralità alpina perduta.

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GIOVANNA CONFORTO

Omaggio a Barbara Nativi. Molti molti anni fa volevo fare l’attrice. Era il periodo in cui dovevo decidere cosa fare della mia vita ed ecco che contemporaneamente mi trovo iscritta a due provini, uno per entrare all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica a Roma e l’altro a Sesto Fiorentino per un progetto europeo diretto da Barbara Nativi. Correva l’anno 1994 mi pare. Barbara ci fece fare il più bel provino della mia vita. C’erano una quindicina di sedie tutte intorno e bisognava portare un monologo ma adattarlo alla… sedia. Lo trovai assolutamente spiazzante ma geniale. Prima fase: scegliere la sedia. Nessuna si adattava al mio monologo di un francese pressoché sconosciuto degli anni 20 del 900. Scelsi una sedia di velluto rosso, bassa, piuttosto imperiale. Non avevo mai pensato a come la “seduta” potesse influenzare un cesellato lavoro sul testo e sul personaggio. L’effetto fu sorprendente, la recitazione si rallentò e si distese da sola come se la sedia avesse acquistato potere. Mi selezionarono… ma mi presero anche in Accademia. Scelsi l’Accademia.

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A.

Una sedia della mia vita, è l’immagine di una donna, una donna che da seduta faceva tutto. Lei era costretta su una sedia per la maggior parte del tempo, per gravi problemi alle gambe e per seri problemi di salute. Lei era la mamma di mio marito, che se ne è andata improvvisamente quattro mesi fa. Per i suoi problemi, aveva imparato ad adattarsi alla vita, da seduta. La sua vita era stare su una sedia e ogni volta che ne vedeva una, più comoda, più grande, più confortevole, ci chiedeva di provarla e poi di comprarla. Nella sua casa, ora ci sono sedie di vari stili e dimensioni e ognuna di loro, racconta un pezzo di lei che da lì, preparava lasagne, puliva verdura, giocava con i suoi gioielli (la sua vera passione), telefonava, discuteva, amava, abbracciava.

Se chiudo gli occhi, il ricordo più immediato di lei, è l’ultimo giorno che mi è venuta a trovare a casa, durante il mio ultimo tentativo di diventare madre: io sdraiata sul letto e lei seduta al mio fianco, mentre insieme tentavamo di guardare la tv, e lei parlava ininterrottamente. Mi amava come una figlia, ed io come una madre, ora me ne rendo conto.
Ora la immagino sempre da seduta, tenere per mano i miei figli, finalmente nonna.

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CLEMENTINA MINGOZZI

Mia Nonna Clementina è rimasta a lungo a letto gli ultimi anni della sua vita, rischiando di rimanere isolata in una stanza appartata della casa. Di fronte al suo letto c’era una enorme Frau rossa, dalla pelle fredda al contatto, ci saltavo dentro e rimanevo volentieri a guardarla mentre lei si appisolava, nel silenzio, a volte mi appisolavo anch’io; il primo ricordo di papirografia me lo ha lasciato lei.

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SIMONA GUERRA

Ricordo me bambina di quattro anni sulle ginocchia di mio nonno. Me lo ricordo grande grande, un omone enorme, le spalle ampie. Stavo seduta sulle sue ginocchia e ovviamente non toccavo per terra. La stessa sensazione me la dà stare seduta sulle ginocchia di Andrea, il mio fidanzato. Lo faccio spesso! Io sono molto alta, sì, ma lui è due metri secchi e quando mi ci siedo sopra non tocco terra. Poter dondolare le gambe vuol dire che ho il permesso di sentirmi piccola piccola… questo mi fa stare proprio tanto bene!

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MARCO LORENZETTI

Ve ne regalo due: la prima che mi viene in mente è me bambino di due anni a Cervinia seduto su quegli animali automatici che si muovono dopo che hai introdotto la monetina (o il gettone) … non ricordo se era Dumbo o un asinello sempre in stile disneyano. La seconda seduto sui leoni stilofori del Duomo di Ancona. Quando ero bambino mi piaceva molto sedermi lì… adesso al massimo posso appoggiarmi sul fianco dei leoni!

intervista 

1KATIA MAZZONI

Te ne regalo volentieri due. Il primo è uno sgabello, superstite di quattro che erano le uniche sedute dei miei genitori quando migrarono in Svizzera 45 anni or sono. Me lo tengo gelosamente come cimelio di famiglia.

La secondo è una sedia a sdraio, con tubolari di ferro e cordoni di plastica colorata ad avvolgere la seduta e lo schienale. Dopo un po’ che ci stavi sopra i cordoni si allargavano e iniziavi a sprofondare verso l’abisso. Su quella sedia, nelle sere d’estate, mio nonno raccontava a noi nipoti storie della sua vita, di guerra, oppure fòle (favole) che oggi trasmetto a mia figlia. Forse è nato lì il mio amore per i racconti. 

intervista

1CHIARA LORENZONI

Una sedia di vimini piccolissima, che aveva da bambina, dove “giocavo a leggere”. Avevo 3 anni e avevo imparato a memoria “il pesciolino Gino”, la mia storia preferita. Me ne stavo lì a far finta di leggere, facendo le pause ai punti e alle virgole e girando le pagine al momento giusto. Per tre brevi minuti, i miei hanno pensato di avere una figlia genio. Solo per tre minuti, eh!

intervista

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EDIZIONI PRECARIE

La cassapanca a casa di mia nonna Carmela, su cui salivamo da piccoli per decantare le poesie a Natale e a Pasqua, una sorta di palco improvvisato su cui sono salite almeno due generazioni di cugini e poi la poltrona su cui sedeva mio nonno Vito sulle cui ginocchia io a mia volta da piccola sedevo.
Niente, alla fine, devo ammetterlo, sono veramente una nostalgica.

intervista

1NO HAY PROBLEMA

Lucia: sicuramente la poltrona azzurra del mio psicoterapeuta dove ho attraversato me stessa, lì a trentanni ho deciso di cominciare a suonare per cercare la bellezza e distaccarmi dalla tristezza con cui per lavoro convivo ogni giorno.

Irene: la poltrona dello studio dei miei, stava accanto al giradischi e, sperimentando tutte le posizioni possibili offerte da una poltrona ad una bambina di sei anni, ho ascoltato moltissima musica, dirigendo intere sinfonie e lì ho giurato che volevo vivere ogni giorno dentro la musica.

Marco: oltre allo zoccolo che ho ancora stampato in fronte? Il  poltrone che ho portato con me quando sono tornato a Palermo da Huddersfield.

intervista

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GIACOMO LONGHI

Se penso alle sedie penso a quelle che aveva mio nonno attorno al tavolo di casa sua, erano modello “cesca”. Da un po’ di anni sono arrugginite su in solaio, mi piacerebbe risistemarle.
Invece la parola araba per dire sedia, kursi, usata in Iran – pronunciata korsi – indica un’altra cosa: un tavolo basso ricoperto di coperte, sotto cui viene messo un braciere o una lampadina che riscalda. Si infilano i piedi al calduccio, sopra si dispongono dei piatti con molte cose da sgranocchiare e si sta seduti così delle ore a fare niente … una pacchia per l’inverno! Peccato che sia una tradizione che si sta perdendo, devo convincere gli iraniani a riportarla in auge.

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JOSEPH VIGLIOGLIA

Sono in camera dei miei. Ho 8 anni e passo le mie giornate a leggere di isole trovate e di galeoni spagnoli da saccheggiare e di pirati senza una gamba con occhi di fuoco e una rabbia che scorre loro nelle vene. Mi dondolo sulla sedia a dondolo della mia mamma. Una sedia che abbiamo ancora adesso, in legno, che scricchiola ad ogni movimento, e che mi regala la magia del viaggiare con la forza della fantasia e dei miei remi.

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ritratto1MONICA BERTINI

(…) Se il tema fosse stato un altro, avrei indubbiamente proposto la ‘sedia da parto’ (anche trovata a Shanghai) e nel frattempo restaurata: ho dovuto faticare per convincere il proprietario a vendermela, non voleva. Chissà quanti bambini sono venuti alla luce attraverso lei…
La materia continua il suo viaggio attraverso il tempo e lo spazio.

intervista

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LAURA SCARPA

Non si fanno più le sedie comode, troppo spesso sono fighe, e scomode. E care. Le sedie della mia vita sono quattro uguali, quelle della cucina della mia infanzia. Primo 900, viennesi, di legno sottile marrone scuro, con demoni e ghirigori di rampicanti sbalzati a caldo sullo schienale e sulla seduta. Su quelle sedie, seduta o inginocchiata, disegnavo da piccola. Su quelle ho disegnato i primi fumetti, con la luce della lampada che scendeva con filo e peso sul tavolo della cucina. In cucina è la vita per me. Sono d’accordo con Banana Yoshimoto in Kitchen. Quelle sedie a Milano le persi di vista. Erano ormai a Padova, nella casa che mia sorella non viveva.

Alla sua morte, e svuotata la casa, ho portato a Roma solo i mobili della cucina (e la casa delle bambole di mia mamma e zie, del 1920). Il tavolo dal ripiano pieno di fessure, la credenza che unisce due pezzi che hanno 3 secoli di distanza l’uno dall’altro, e le sedie. Su quelle sedie si cena con gli amici, leggo i libri nelle pause lavoro (ma alterno la seduta a quella sulla palla ginnica, per la schiena), ma su quelle sedie non riesco più molto a disegnare, perché non sono abbastanza alte per permettere di non stancarsi vista e spalle. Ma quei “bassorilievi” degli schienali, con maschere che sembrano illustrazioni di un libro da paura, sono una sedia che mi racconta bene.
Ma, diciamolo, la sedia che disegno più spesso è quella da lavoro (semplice e ormai storta, di Ikea). E poi mi disegno seduta sugli alberi… magari! Una fumettara rampante, a dirla con Calvino.

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DANIELA IRIDE MURGIA

Copenhagen, Museo del Design, seduta su una copia gigante del famoso modello Shell Chair di Hans J. Wegner. Pura, rarefatta felicità.

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DONATELLA SASSO

Nel 2009, per la prima volta, ho avuto la fortuna di accompagnare un gruppo di studenti, vincitori del concorso di storia contemporanea del Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte. Destinazione: Bosnia Erzegovina.
In quella sera di maggio, a Sarajevo, ero piuttosto emozionata: avrei dovuto tenere una lezione ai ragazzi e ai loro insegnanti sul conflitto degli anni novanta. Mi mostrarono la sala dove avrei parlato, guardai la sedia dove mi sarei dovuta accomodare e poi andai a cena con tutti gli altri. Verso le 21 andai nella sala e accanto alla mia postazione trovai già seduto uno dei consiglieri regionali che ci avevano accompagnato nel viaggio. Persona di poche parole, ma di idee chiare e ben radicate, mi accolse con una specie di sorriso.
“Ah, parla anche lei questa sera!”. Gli dissi con un certo sollievo. “No, porto solo un saluto e poi le cedo la parola, è che non volevo lasciarla sola”.
Grazie a quella rude e inattesa galanteria, mi passò ogni ansia e tenni il mio primo discorso in terra bosniaca con estrema serenità.

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ANNALISA STRADA

La sedia della mia vita è stata un ramo di ciliegio. Seduta sulla forcella di una biforcazione ho trascorso molti pomeriggi d’estate, da bambina. Vorrei che tutti avessero rami frondosi su cui tornare elementi della natura e non per forza esseri in cima alla catena alimentare.

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CLAUDIA DELLABONA

Adesso che siamo alla fine, ti devo rivelare che non amo le sedie. Amo i divani, le amache, i letti, i tavoli, ma non le sedie. Però adoro i tessuti che rivestono sedie e poltrone. Infatti, per le mie creazioni di stoffa, siano esse giocattoli, borse o collane, uso quasi solamente tessuti naturali destinati agli arredatori d’interni.

Ecco, se me la passi nella categoria “sedie”, potrei scegliere un’amaca. Ne ricordo una bellissima, bianca e blu, con dei ricami di pizzo ai lati, nel giardino di amici quando abitavamo ancora a Greifswald, sul mar Baltico. Avevo partorito da poco e, mentre la bambina si divertiva in giardino, io riposavo dondolando.

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CRISTIANA PEZZETTA

Una delle mie sedie preferite è un prato di erba medica appena falciato, su cui mi sdraiavo con mio padre a leggere storie di nuvole.

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TEATRO PANE E MATE

La sella dell’Ippogrifo.

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DAVIDE CALI’

Non ci sono sedie romantiche nei miei ricordi. Ma come ti ho detto non i piace stare seduto.
Preferisco stare sotto il palco, in prima fila, a cantare a squarciagola, stordirmi le orecchie e guardare sotto la gonna della bassista.

INTERVISTA

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