C’era una volta un Maestro. Una persona autorevole, strutturata, uno capace di formare le persone. Esponeva una teoria splendida.
Un giorno si alzò un ditino timidissimo, là, in fondo alla classe. Titubante, la vocina nascosta tra i molti alunni disse:
“bello. fammi vedere in pratica”
Il Maestro storse il naso. Pratica era parola volgare. La prassi era davvero l’ultima delle questioni.
Il ditino si riabbassò, per nulla convinto. Non stette a vedere come andava a finire la lezione, uscì nell’intervallo sbattendo la porta; c’era molta confusione e nessuno si accorse di quel gesto irriverente.
Via nel mondo, si sporcò, si arrese alle imperfezioni e al caos e scoprì che lì c’era vita. Smontò e rimontò la parola pratica, ogni giorno trovava nuove sfumature di significato.
Una volta, molti anni dopo, vide da lontano il Maestro. Anche lui doveva aver smontato e rimontato. Ora aveva costruito la Teoria del Fare. Ma era un Fare algido, ancora troppo intellettuale, schematico. Regoline.
Il ditino, antenna piena di energia, cambiò di nuovo direzione. Proseguì, tracciando su una mappa immaginaria strade contorte che disegnavano figure di tartarughe, di mani bambine, di divani casalinghi.
Eppure, nel continuo smontare e rimontare i percorsi, quel ditino aveva assimilato almeno parte delle lezioni del Maestro. La cosa lo stupiva, perché ciò che tendeva a rifiutare riaffiorava sempre più spesso, generato da coincidenze davvero imprevedibili. Con l’unghia malamente smaltata stava disegnando una struttura solida, bella, che aveva un senso e dava conforto nei momenti in cui il caos prendeva il sopravvento.
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