Li vedo dall’alto, sono volumi che corrono, masse muscolari che scattano. Magliette ogni volta diverse. Ne vedo di tutte le taglie, di tutte le età, non distinguo le facce. Giocano dal pomeriggio fino a che c’è buio e anche oltre, sotto i lampioni. Corrono tanto nello spicchio di campo che riesco a vedere dalla mia finestra, immagino che sudino anche quando spariscono dalla mia visuale, pezzi di case mi impediscono di verificare. Sono lontani, non sento le voci, ma lo stereotipo vuole che si insultino almeno un poco, che s’accalorino. Passione ce ne mettono, e molta, mi pare. Tutti, sempre, soprattutto i piccolini. Quando ci sono loro mi soffermo perché ce n’è sempre uno con la maglia troppo grande fuori dai pantaloni, una grinta enorme. Ce n’è sempre uno così e se non c’è aspetto, sarà nella parte nascosta di campo prima o poi arriva – mi dico – infatti compare, compare sempre. Quando ci sono i piccolini di solito è un allenamento. Con il sole, con la pioggia, d’inverno, è buio ma sono lì.
Non capisco loro e quelli come loro, non capisco chi tifa, cioè un po’ capisco ma sfotto, m’intenerisco in realtà perché i tifosi – tutti, di qualsiasi sport – mi sembrano tutti il bambino con la maglia troppo grande, solo un po’ cresciuto. E quindi vorrei tanto saper scrivere di bambini seduti in cerchio pendenti dalle labbra di un allenatore che parla loro dall’alto, esterno al cerchio, e spiega e forse cazzia e li tratta certamente da grandi, vorrei poter scrivere cosa passa nella testolina di loro seduti o della sensazione di potere di quell’adulto. Ma non posso, io e lo sport non ci siamo mai capiti. Lascio dunque il post sulla panchina dello spogliatoio a chi ne sa più di me, si facciano pure avanti volontari, offrirò lo spazio, io passo.
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