Intervista a Giovanna Conforto

Quando ho visto Giovanna la prima volta, io ero seduta, e lei in piedi.

 

Ero in ritardo e lei stava già raccontando una storia in cui c’erano un fiorentino un farmacista e un gigante. E un prete, mi pare. 
Finito lo spettacolo, in corridoio, ci siamo ritrovati ad ascoltarla ancora, incantati, e abbiamo offerto a lei e al marito Rosario il sedile posteriore, che erano venuti a piedi. Abbiamo chiacchierato di storie, tesine incombenti, di pulcini e di orti. Nel breve tragitto, Giovanna, che parla cinque lingue e lavora in tre, mi ha generosamente regalato due storie. Una dalla Norvegia e una dalla Normandia. E mi ha raccontato che in Francia usano due parole diverse per distinguere la Conterie, nobile, dallo Storytelling, commerciale. E che in Irlanda (o mi stava parlando della Scozia, dove ha studiato?) al pub ti dicono O ci canti qualcosa o ci racconti una storia o ci fai vedere il culo. Insomma, in quel vortice di sedie, racconto e stimoli, potevo lasciar passare questa occasione??
Ecco un po’ di quello che ho raccolto su quel sedile, sul terrazzo della sua casa fiorentina, che ha una vista mozzafiato, e quello che mi ha scritto da Roma, finalmente tranquilla sulla sua sedia di velluto verde. Le ho chiesto qualche foto, ma “Sulle foto sono veramente una negazione, non ho nemmeno una macchinetta o un cellulare che le fa. Io sono per le immagini della mente (così si giustifica chi è negato)” quindi non resta che immaginarcele!

Siediti e dicci: Chi sei, che cosa fai?

Son Giovanna Conforto, mi occupo di storie.
In inglese si dice Storyteller, in italiano non ho ancora trovato la parola adatta. Reperisco ed elaboro storie legate ai luoghi, opere d’arte ma anche a volte alla scienza come mi è capitato quest’anno. E’ una forma di spettacolo ma per me anche e sopratutto di ricerca.

Nel tuo campo professionale le sedie c’entrano? Hanno una sfumatura speciale, un significato? 

Sì! Per il narratore la sedia e’ molto importante. Moltissimi narratori raccontano seduti. Io non ci riesco, io più volentieri sto in piedi, tanto dopo pochi secondi mi alzo! Ma se sto a sedere devo scegliere la sedia adatta. Così mentre lavoravo con il mio amico e collega francese Jean Guillon lui mi ha prestato la sua sedia “di narratore”, una vera “chaise du conteur”. Era una sedia impagliata che era di sua madre e a cui teneva tanto. Durante uno spettacolo a Marsiglia o agitandomi sopra con la mia nota grazia gliela ho spaccata e non credo mi abbia mai più perdonato. Ci e’ rimasto molto male, per lui e’ l’emblema del suo lavoro.


Ma le sedie si riparano!

Sì ma era antica e l’ho spaccata bene bene. 
Molta parte del mio lavoro si fa davanti ad un computer. Ho la fortuna di lavorare la maggior parte del tempo davanti ad una grande finestra con vista mare e due grandi pini. La sedia è una grande sedia di velluto verde con una bella cornice di legno grezzo. Poi nel mio salotto c’è una dormeuse, o chaise longue, che è una poltrona luuuuunga. E’ lì che leggo e studio e dove nascono la maggior parte delle mie idee. E’ un po’ alla Paolina Borghese.

E il tuo pubblico? Chi riempie le sedie? Quando io ho assistito erano tutti a bocca aperta…

Il pubblico. Di media gli stranieri sono più abituati a sentire storie e più educati. Ma questo in genere non è un bene. E’ più facile per me avere un pubblico irrequieto da “domare” che un pubblico educato da “scaldare”. Nella narrazione la comunicazione funziona se passa da entrambe le parti, altrimenti non succede niente. In Belgio ho visto gruppi di scolaresche non spostare nemmeno una seggiola mentre si sedevano, mentre il narratore faceva di tutto per cercare di creare il “ponte” e ci riusciva solo a tratti. Anche io lì, lavorando solo con adulti, ho avuto difficoltà a partire… ma poi la cosa è andata. Lo stesso in Scozia: un gruppo di una scuola bilingue inglese-italiano di Glasgow, tutti precisi, perfetti, in divisa a una mostra nell’Edinburg College of Arts. All’inizio mi guardavano con sospetto e diffidenza. “Ma chi e’ sta pazza che si dimena?” sembrava leggersi sui loro volti. Siccome la narrazione da sola non funzionava, sono passata al piano B. Ho cominciato a prendere fisicamente i ragazzini dal pubblico e li portavo sullo spazio scenico con me e li facevo interpretare i personaggi della storia. Era una storia de Le Mille e una notte. I primi dieci minuti sono stati lunghissimi e la restante ora è volata al punto che stavo per perdere l’aereo. Una cosa del genere non credo possa succedere in Italia.

Scottish International Storytelling Festival Edimburgo 2012


Quando son venuta a vederti c’era una bambina che si sbracciava “Io la so questa storia!” E tu l’hai chiamata a raccontarla… Piccola, una volta lì in mezzo l’abbiamo applaudita tutti e lei è arrossita ed è scappata tra le braccia della mamma! Gli adulti presenti eran bellissimi, sembravan tutti bambini, tutti a bocca aperta…

La facce. La facce cambiano. Arrivano come tutti tesi e stressati e poi piano piano si distendono, si rilassano, si lasciano cullare dalla narrazione e ritornano un po’ bambini. In Cina la cosa più bella che può succedere ad un Narratore è che qualcuno tra il pubblico si addormenti. Non so se è così davvero, in Cina. Io so che è successo a me. Ero al Museo di Palazzo Venezia, arriva una classe con un bimbo terribilmente irrequieto. La maestra di sostegno mi dice urlando e come per giustificarlo che e’ ipercinetico. Ma lei è più agitata di lui. Io lo riprendo, non perché dia fastidio a me ma perché vedo che sta sbatacchiando la cartella in faccia ai bimbi che gli stanno ai lati, che non possono seguire la storia. Gli dico con tono fermo di stare un attimo tranquillo. Forse per un momento si spaventa, non so. So che pochi secondi dopo dormiva pacifico sulla sua cartella e il suo volto era disteso e tranquillo. Ovviamente la maestra è venuta a scusarsi, io penso che sia stata una delle cose più belle che mi siano successe.

In casa, che sedie hai? E perché?

Per me le sedie sono da riferirsi sempre a un tavolo. Quindi per mangiare, per lavorare, per scrivere ecc… non sono scelte secondo un criterio. Appena comprata casa, mio marito ed io decidemmo di festeggiare con gli amici e i nuovi condomini. Poi ci accorgemmo di non avere neanche una sedia, quindi andammo al mercatino dell’usato sotto casa nel quartiere di Torpignattara a Roma e comprammo tutte quelle che c’erano: due sedie di formica rosa da cucina, una sedia imbottita verde, due panchette a doghe di legno. Le abbiamo ancora tutte!

Per immagine, se tu fossi una seduta, saresti una sedia, una poltrona, uno sgabello, un divano o una sdraio?

Inequivocabilmente un divano.

Ti vedi più la sedia su cui gli altri possono sedere o alla ricerca della sedia su cui sederti?

Anche due. Senza dubbio la sedia su cui si siedono gli altri, anche viste le mie morbide forme

Nella tua vita hai mai incontrato persone che son state per te una sedia? 

Mio marito è sicuramente un grande appoggio e quindi direi che sì… si potrebbe definire anche una sedia!

Ci regali una sedia della tua vita? Un ricordo, un desiderio…

Omaggio a Barbara Nativi. Molti molti anni fa volevo fare l’attrice. Era il periodo in cui dovevo decidere cosa fare della mia vita ed ecco che contemporaneamente mi trovo iscritta a due provini, uno per entrare all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica a Roma e l’altro a Sesto Fiorentino per un progetto europeo diretto da Barbara Nativi. Correva l’anno 1994 mi pare. Barbara ci fece fare il più bel provino della mia vita. C’erano una quindicina di sedie tutte intorno e bisognava portare un monologo ma adattarlo alla… sedia. Lo trovai assolutamente spiazzante ma geniale. Prima fase: scegliere la sedia. Nessuna si adattava al mio monologo di un francese pressoché sconosciuto degli anni 20 del 900. Scelsi una sedia di velluto rosso, bassa, piuttosto imperiale. Non avevo mai pensato a come la “seduta” potesse influenzare un cesellato lavoro sul testo e sul personaggio. L’effetto fu sorprendente, la recitazione si rallentò e si distese da sola come se la sedia avesse acquistato potere. Mi selezionarono… ma mi presero anche in Accademia. Scelsi l’Accademia.

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